martedì 26 ottobre 2010

Un alpinista da guinness


Luigi Bosio
La montagna come simbolo di libertà spirituale


di Marco Tatto ed a cura della Redazione di Montagnard

foto: archivio fam. Bosio






In quell'articolato caleidoscopio di emozioni, sensazioni e fatica denominato "Alpinismo" hanno sempre convissuto personaggi noti al grande pubblico ed una schiera di dilettanti sconosciuti ai più. Entrambi accomunati da una passione spesso tramutatasi in una vera e propria malattia: il "mal di montagna". Da questo "male" dalle origini imperscrutabili fu certamente colpito, in maniera molto virulenta, Luigi Bosio, alpinista di Alpignano (1935-1994) attivissimo a cavallo fra gli anni '70 ed '80 del secolo scorso. Qualche dato sulla sua attività che ha dell'incredibile: oltre mille (1000!) volte su cime di 4000 metri, di cui 158 scalate d'inverno, 511 in sci e 385 in solitaria. Scalò il Bianco una cinquantina di volte (dalla Midi, dai Mulets, dalla Brenva e dai Rochers), il Gran Paradiso una trentina (tre ascensioni dalla parete nord-ovest), il Cervino una ventina (in traversata e non, e due volte con la moglie). In pochi anni portò a termine la salita di tutti i quattromila del Rosa in invernale, e si potrebbe continuare... Intervistato in un vecchio Bollettino GEAT (di cui fu un valente collaboratore) in questi termini spiegava cosa rappresentasse per lui l'alta montagna:

Credo che sia, anzi lo è, il mio laboratorio preferito dove affino i miei gusti, il mio modo di agire, di riflettere e anche di vivere; perché quando mi ritrovo in determinate situazioni il problema che mi si pone davanti lo debbo risolvere positivamente altrimenti subentra il rischio.

La passione per le alte quote non lo distolse comunque dallo svolgere un'attività parimenti intensa anche sulle montagne valsusine. Salì oltre duemila (2000!) volte a Rocca Sella (anche in sci), la cima di casa che fu anche la sua ultima salita; il Rocciamelone lo vide calcarne la vetta circa 200 volte attraverso tutti i versanti e in tutte le stagioni: il 23 settembre 1973 prima solitaria integrale della parete sud-ovest (salita nel 1928 da "Melo" Dezzani, allora gestore del rif. Cà d'Asti); il 5 gennaio 1975 solitaria del versante sud-est (ripetuto in discesa a distanza di una settimana); il 1 luglio 1977 salita del canalone collegante il ghiacciaio del Rocciamelone a quello di Fons 'd Rumour e del versante nord-nord-ovest della montagna; solitarie sulle vie "storiche" del versante nord-est e traversate per cresta (quella dei Brillet-Rocce Rosse la più ripetuta). Degna di nota, in zona, anche la traversata invernale della Punta Roncia, dal Signal du Lamet al Col du Lou (24 dicembre 1974).



Luigi Bosio sulla cresta Brillet-Rocce Rosse al Rocciamelone



A questo punto sorge spontaneo interrogarsi su quali motivazioni lo spingessero ad una attività così frenetica:

Riguardo alle motivazioni posso affermare che sono di varia natura, come ad esempio il piacere di sentirmi a mio agio a quelle altezze dove le meschinità umane non hanno senso di esistere. Altre volte provo una forma di eccitazione che mi porta a cavalcare una vetta dopo l'altra. In quei momenti in me scompare ogni senso di fatica fisica e quando le giornate sono perfette non disdegno di raggiungere una punta anche al tramonto, quando ogno logica consiglierebbe di trovarsi a quell'ora in un rifugio sicuro. [...] Non sono stato spinto né da una forma agonistica, né da sponsorizzazioni, ma semplicemente dal mio modo di vivere e concepire la salita come fine a se stessa, oltre che dal gusto di calcarne la sommità come simbolo di libertà spirituale.

Libertà spirituale ben evidenziata in un ricordo di una salita solitaria sulla est del Rosa che sembra riecheggiare la prosa di Ettore Zapparoli:

Sono solo. A mezzanotte lascio la Capanna Marinelli. Alle lapidi nei pressi del canalone omonimo rivolgo una preghiera a quelli che non sono più ritornati. La salita lungo la est del Monte Rosa, nella notte, si rivela stupenda ed irreale. Salgo solo con la presenza dei miei pensieri, mentre leggere colate di granuli ghiacciati scendono dall'alto. Sotto il Silbersattel effetuo un delicato traverso e lungo il crestone est dopo 12 ore circa sono sulla vetta della Dufour. Mi pare incredibile di avere superato tutte le difficoltà. Quello che ho lasciato alle spalle mi pare un sogno meraviglioso, invece è una realtà che ho costruito minuto per minuto e fa parte di quelle gioie che la montagna sa elargire.



sulla Punta d'Arnaz, 15 dicembre 1968



All'epoca non mancarono i detrattori che giunsero ad apostrofarlo come uno "stakanovista delle vette" o, addirittura, una "macchina calpesta-cime a tempo pieno". In realtà Bosio non espresse mai un alpinismo di sola "conquista", o di agonismo sfrenato; egli fu un vero innamorato dell'ambiente alpino (il suo "laboratorio personale") e non mancò mai di confrontarsi dialetticamente con tutti quelli che gli furono compagni nelle sue innumerevoli salite. Un vero gentleman delle alte quote che non disdegnò i ben più modesti rilievi valsusini ed in particolare la "sua" Rocca Sella, la sua ultima salita che gli costò anche la morte per un improvviso malore che lo colse poco sotto la vetta.
Noi vogliamo ricordalo come uno di noi, un vero montagnard.



sabato 23 ottobre 2010

CIELI CON INTERFERENZE

Continuo traffico aereo nei cieli d'alta quota
Un fenomeno sempre crescente
Dove si arriverà anche qui?


Testi e fotografie: montagnard







Cieli intensamente solcati da tracce di jet,
segni tangibili di un progresso o di un regresso?










Trame di una rete in controluce,
un cielo sbarrato
sopra creste schiacciate verso il basso












Sorgono ovunque,
all'improvviso,
da pendici orientate in ogni modo,
non hanno rotta, impazziti vagano nell'azzurro












Virgole disordinate, quasi sfregio.
Nelle città si danno tanta pena per quattro muri "imbrattati" dai graffiti.
In montagna un fenomeno di tale imponenza passa pressoché inosservato.
Volare, traferirsi veloci è diventato così obbligatorio?
Uno dei tanti mali necessari?






Virgole... senza punto di partenza
e senza punto d'arrivo.
Il cielo come un'autostrada









Anche in aperta parete,
silenzi costantemente interrotti,
via vai senza posa,
la musica del vuoto corre su nuove sinfonie...






Come in un aereoporto.
Non è tanto lo sfregio estetico del cielo d'alta quota.
Quello è ancora il meno.
In alcuni valloni, su alcune creste non c'è minuto che passi senza il rombo di un jet.
La natura resta disorientata.
Gli animali fanno fatica a riconoscere il sopraggiungere dei pericoli.
Io stesso fatico a concentrarmi sui passi, sugli orizzonti, sul mio respiro.
Pare esagerato. Ma nel momento in cui lo si realizza, nulla è più come prima.






Una volta ho contato.
48 jet sopra la mia testa nell'arco di 3 ore di gita.
Calcolando che ognuno emette il suo frastuono 
per una durata media non inferiore ai 2 minuti,
significa 96 minuti di rombo.
Rimangono 104 minuti liberi, nel silenzio.
Significa che quasi la metà del tempo è rubata alla pace...






Non ultime le emissioni di CO2...
Già, quelle.
Chissà cosa ci tocca respirare anche a 3000 metri.
Chissà cosa arriva dal cielo.
Il vento porta lontano, pensano in tanti. Il cielo è immenso.
Ma come con la neve, il vento prima o poi fa posare al suolo ogni cosa.
E il nostro cielo è uno spazio finito, una risorsa estinguibile.
Vogliamo consumare completamente anche questo?


lunedì 18 ottobre 2010

CHAMOIS incontri d'autunno... Fotogallery

Foto: montagnard
Data: Settembre-Ottobre 2010
Località: Alta Valle Susa, siti precisi non dichiarati




Orizzonte cucito sopra ad una creatura schiva ma curiosa,
attenta ad ogni piccolo dettaglio,
lontana e vicina...





Linea rocciosa sfuggente,
crinale indefinito,
loro corrono su questo etereo confine, ancora invisibili






Presenze che aumentano di numero,
ancora sottili, indecifrabili all'occhio,
ma spingono a cercare,
nel tentativo di raggiungere






E si scorgono a decine, nel pascolo dell'altura,
nella solitudine selvaggia, libera
di un vallone per fortuna dimenticato dall'uomo






Solo sfuggendo alla tentazione della corsa,
adattandosi alla lentezza ed alla pace,
sconfiggendo ogni fretta,
accogliendo il silenzio, si arrivano quasi a toccare, quasi ad abbracciare...






Solitario,
un capobranco scruta il limitare del suo territorio,
non si mescola ai suoi simili che per pochi istanti nell'intera giornata,
attende l'uomo e pare volerlo sfidare






Veloci risalite, quell'agilità sui pendii che noi possiamo solo sognare






Ancora più vicino,
fin quando riusciamo ad incontrare le nostre pupille,
e dentro c'è solo selvaggio,
profonda dolce inaccessibilità della natura






E poi l'inevitabile esodo,
l'allontanamento necessario dall'uomo,
dentro alla pancia della montagna,
scivolando da salti vertiginosi e scuri, 
dove solo loro sanno vivere






Leggerezza e potenza della corsa verso il rifugio,
verso una nuova solitudine,
lontani dall'inquietante presenza dell'essere umano






Separato dal branco,
spinto verso valle dal rumore della mia discesa,
scruta impaurito.
Lo perdo d'occhio e proseguo.
Di lì a poco quattro spari secchi,
un mercoledì di caccia autunnale.
Provengono da quel canalone dove ci siamo incontrati per l'ultima volta.





FINE





sabato 16 ottobre 2010

Arte Rupestre in Val di Susa

Il GRCM
Gruppo di Ricerche di Cultura Montana


A cura di Montagnard
Fonte: culturamontana.altervista.org




Comune di Mompantero, Madonna dell'Ecova, incisione rupestre (foto GRCM, 1988)



Il GRCM (Gruppo Ricerche Cultura Montana, Torino) è un'associazione onlus di volontariato culturale nella ricerca di elementi di cultura e di natura alpina.

Le sue attività si sono rivolte principalmente a:

- documentazione degli insediamenti montani
- allestimento di importanti sentieri di Grande Traversata (Alta Via e Sentiero Balcone della Valle di Susa)
- catalogazione delle incisioni rupestri in Valle di Susa e nelle valli piemontesi
(oltre 300 le schede presenti)
- laboratori didattici di archeologia rupestre per le scuole elementari e medie inferiori
- ricerca etnografica e toponomastica (comune di Chianocco)
- redazione di volumi di escursionismo culturale (Le Valli del Moncenisio, Sui Sentieri dell'Arte Rupestre).

Attiva dal 1976 e ufficialmente costituita nel 1980 da un gruppo di giovani provenienti per lo piú da interessi ed esperienze in campo archeologico, ha mostrato sin dall’inizio un forte interesse per lo studio dell’arte rupestre, da un lato, e per la documentazione della cultura materiale alpina (insediamenti, moduli costruttivi, percorsi montani) dall’altro, individuando come prioritario uno stretto rapporto, anche di vita, con il territorio montano. Le ricerche si sono rivolte inizialmente alle aree della Val Chisone e della Val di Susa, per poi concentrarsi nella Bassa Val di Susa e nella Valcenischia.

Il logo del GRCM


Il logo del GRCM, costituito da una figura femminile in costume, è tratto dalle incisioni eseguite da Marco Delo (uno scalpellino eremita che d'estate preferiva vivere in un riparo roccioso a circa 1600 m di quota) sui monti sopra Villarfocchiardo (Valsusa) alla fine del secolo XIX. Marco Delo ha inciso un'intera parete con figure di cani, capre, e personaggi fantastici che probabilmente si riferiscono a tradizionali feste carnevalesche.


Ca' 'd Marc, il GRCM nel 1977 durante il rilievo della parete incisa (foto P. M. De Agostini - GRCM)

Dal 1976 al 1990 fu realizzata, nel corso di varie campagne di ricerca, principalmente estive, e di numerose uscite di ricognizione e documentazione, la schedatura delle rocce incise della Bassa Valle di Susa, utilizzando una scheda derivata in gran parte da quella adottata dai ricercatori francesi del Monte Bego, al tempo presentata dal socio Leonardo Gribaudo. Solo alla fine degli anni ’80 fu adottata dal GRCM la Scheda internazionale per il censimento delle incisioni rupestri delle Alpi occidentali. Nel volume La Pietra e il Segno (Grcm 1990) sono state pubblicate le schede complete delle 50 rocce piú interessanti e la tabella riassuntiva dell’intero catalogo (295 rocce a sigla SUS seguíta da un numero progressivo); il corpus integrale delle schede è tuttora inedito. L’attività di ricerca fu resa possibile dal costruttivo appoggio del Comune di Bussoleno, che aveva concesso in comodato gratuito all’associazione l’edificio, già in disuso, della vecchia scuola della frazione Argiassera. La disponibilità di tale “base operativa”, oltre a facilitare non poco la socializzazione fra i soci, permise nello stesso tempo una diretta e non comune conoscenza del territorio montano, favorita in primis dai ripetuti survey dell’amico Leonardo (a lui si deve la prima segnalazione di cocci protostorici nell’area del sito di Castelpietra, presso Susa), socio fondatore del GRCM, capofila nelle attività di ricerca legate al territorio montano e alla sua esplorazione, studioso degli insediamenti e della cultura materiale alpina, pioniere informatico (vedi GRIBAUDO L. 1976, Metodi ed implementazioni per l’elaborazione elettronica di dati relativi alle incisioni rupestri), fotografo d’ambiente e appassionato di archeologia e di arte rupestre; aveva partecipato all’inizio degli anni ’70 del ’900 alle prime campagne di documentazione condotte dall’équipe francese guidata da H. de Lumley sui petroglifi della Valle delle Meraviglie. La sua dolorosa scomparsa, avvenuta nell’aprile del 2007, molto ha tolto agli amici e soci del gruppo, nonché a tutti quelli che gli erano vicini.

Bussoleno, la borgata Argiassera e l'edificio della vecchia scuola, oggi abbandonata,
sede estiva GRCM dal 1976 al 1995

Laboratorio permanente di ricerca teatrale di Salbertrand

Un piccolo grande teatro

A cura di Montagnard
Fonte: www.artemuda.it

 
La piccola Salbertrand punta sull'arte ed evoca i nomi dei giganti della storia del teatro da Peter Brook a Tadeuz Kantor, da Stanislavskij ad Antonin Artaud. Parrebbe essere utopia, ma a ben guardare la storia delle rivoluzioni che hanno rivitalizzato l'arte dell'attore ci accorgiamo che questa è passata fuori dai palcoscenici dei teatri all'italiana, per attingere alle esperienze più disparate e alla vita che scorre fuori dalla cosiddetta cultura "alta" che oggi si produce e si promuove solo attraverso il tubo catodico dell'elettrodomestico più odiato ma più utilizzato in ogni casa. Così è nato a Salbertrand un laboratorio permanente di ricerca teatrale, tenuto dalla Associazione Culturale ArTeMuDa di Torino, che si propone di scavare nella cultura locale attraverso un approccio di tipo antropologico.
L'espressività essenziale del teatro povero
Il laboratorio tiene delle sessioni di lavoro nella palestra messa a disposizione dall'Amministrazione comunale, ed è diretto da Renato Sibille, ricercatore impegnato nella valorizzazione della cultura locale, laureato in teatro al DAMS dell'Università di Torino e cultore di teatro di ricerca presso la stessa facoltà. Le tecniche mediante le quali gli ispiratori del laboratorio vogliono condurre la ricerca trovano fondamento nell'antropologia teatrale. Si tratta di una nuova disciplina che studia l'arte dell'attore e la sua presenza scenica nel suo aspetto di extraquotidianità. La antropologia teatrale è stata ideata alla fine degli anni Settanta da Eugenio Barba, uno dei più grandi registi della scena internazionale, che é stato a Torino nel 2004 e nel 2005 con una serie di spettacoli e workshop del suo gruppo, l'Odin Teatret, direttamente dalla Danimarca dove ha sede il suo laboratorio teatrale.

Il laboratorio di Salbertrand conduce ricerche di tipo storico e antropologico sul lavoro contadino e sulla cultura dell'Alta Valle di Susa, incontrando quelli che Renato Sibille definisce "gli altri nostri grandi maestri: gli abitanti del posto che custodiscono il sapere di una terra e i suoi gesti".


Immagini di vita montanara nell'alta Valle di Susa

E' proprio sul gesto che si concentra essenzialmente la ricerca. Quel gesto del mondo contadino che perdendosi porta con se le parole che non hanno più ragione di essere dette perché narrano, descrivono, chiamano quel gesto che produce un lavoro. Il lavoro duro della vita quotidiana ormai lasciata alle spalle, ma ancora presente nella carne e nella memoria di persone eccezionali in grado di trasmettere l'essenza di quella vita e di quel mondo. Un teatro occitano dunque? No - ci spiega Renato Sibille - un teatro che guarda al mondo occitano e alla sua identità e attraverso questo, compresa la sua lingua, il patouà, vuole comunicare in pari dignità con il mondo delle differenze e delle diversità, contro ogni globalizzazione.

La visione teatrale del gruppo nasce dal teatro povero del grande regista polacco Gerzi Grotowski, un teatro povero sì di mezzi ma, soprattutto, povero di elementi non indispensabili all'accadere teatrale che spesso appesantiscono la scena e portano lo spettatore a sonnecchiare, annoiato da parole e gesti buttati via, privi di vita e di un perché. Il teatro povero non può fare a meno di due sole cose: i corpi dell'attore e dello spettatore, tutto il resto non è essenziale alla scena.

Bambini della zona di Exilles, ritratti lontani nel tempo
Il Laboratorio Permanente di Ricerca Teatrale a Salbertrand si propone di raccogliere e rielaborare frammenti di memoria, passi solitari lungo sentieri impervi, parole frantumate sulle pietraie ai margini dei campi non più coltivati, immagini racchiuse in piccole cose indimenticabili. La ricerca vuole focalizzare la sua attenzione sulla cultura locale dell'Alta Valle di Susa attraverso un approccio di tipo storico e antropologico.

Una parte fondamentale del lavoro è costituita dall'incontro con gli abitanti del posto, considerati alla stregua dei grandi maestri poiché custodi del sapere di una terra e dei suoi gesti. È proprio sul gesto che si concentra essenzialmente la ricerca; quel gesto del mondo contadino che perdendosi porta con se le parole che non hanno più ragione di essere dette perché narrano, descrivono, chiamano quel gesto che produce un lavoro. Il lavoro duro della vita quotidiana ormai lasciata alle spalle, ma ancora presente nella carne e nella memoria di persone eccezionali in grado di trasmettere l'essenza di quella vita e di quel mondo.

Il laboratorio é aperto a tutti e si svolge a Salbetrand (TO) presso la Sala Polivalente.

Per informazioni: 335-7669611 oppure scriveteci una email a artemuda@yahoo.it



Pierre Muret (3035 m) - Escursione in fotogallery


Foto: montagnard
Data: 28 Settembre 2010
Località: Alta Valle Susa, Vallone di Rochemolles
 


La Pierre Muret a sinistra e la Valfredda a destra, viste dal Passo di Roccia Verde (2818 m)





 Grange La Croix (1960 m), sul sentiero di salita alla Pierre Muret





Salendo, quota 2150, scultura naturale emerge dai resti di un vecchio larice






Quota 2380, ometto, alle spalle la Valfredda e i contrafforti dello Jafferau (2800 m)






Sagoma montuosa quasi perfetta, sublimazione piramidale - La Pierre Muret (3505 m)






Cielo dalle lunghe prospettive, verso la Francia, quota 2550






In cima alla Pierre Muret, quota 3035 - Croce di ferro, fredda come la temperatura dell'aria (- 4°)






Da sinistra: Rognosa d'Etiache (3382 m), Colle del Sommeiller (3000 m), Punta Sommeiller (3333 m)






Zoom dalla cima sulle pendici erbose sopra Rochemolles, ormai in veste autunnale





Quattro stelle.
Compaiono all'improvviso,
in discesa,
rappresentazione di una natura alpina immutabile e perfetta,
quella che noi non riusciamo a toccare,
quella onirica, per fortuna ancora reale.






La giornata si compie,
nubi prima annodate,
ora si sciolgono nel cielo,
la luce è il principio ed il termine delle cose.



FINE




VAL DI SUSA - Racconto d'altri tempi

  “RADICI”
         Racconto d’altri tempi e non solo


Foto: arch. famiglia Gioberto e arch. Montagnard
Testo: Lionello Gioberto


Qualche tempo fa ci è giunto in redazione un bel racconto scritto da Lionello Gioberto, stimato sindaco di Vaie nonché da tempo lettore di Montagnard. E’ ambientato al principio degli anni ’70, in una piccolissima frazione che si chiama Borgata Mura, raggiungibile da Vaie, Sant'antonino e dal Colle Braida (Valgioie - Sacra di San Michele).
Si tratta di un ritratto struggente della vita montanara e contadina dell’epoca. Uno spaccato ricco di grande sensibilità ed amore per la propria terra. L’anima dell’autore emerge con straordinaria  limpidezza.
Il racconto è corposo, ma merita davvero di essere letto con calma e per intero...


La 600 bianca sferragliava ansimando lungo la ripida strada sterrata che saliva il costone della montagna. Sette chilometri di pista sconnessa da fare tutti in prima, saltando di pietra in pietra come un camoscio carrozzato FIAT. Tutto traballava: sì che erano utili le maniglie per reggersi alla carrozzeria! La leva del cambio si agitava in un ballo tutto suo, con la mano libera dalla maniglia si accudivano i bagagli sistemati sul sedile di dietro e tra le ginocchia, il rumore costipato della prima marcia prendeva il ritmo delle buche e il suo ronzio sincopato veniva ogni tanto sovrastato dai colpi di clacson che papà faceva muggire prima di affrontare i tornanti e le curve cieche. Mezz’ora di polveroso (o fangoso, che è peggio) travaglio per arrivare su dove finiscono i castagni, la montagna spiana e la strada finisce. Dove c’è la casa dei miei Nonni.


La storica 600

Anche la quinta elementare era finita, eravamo tutti contenti e, in attesa che arrivassero i libri delle medie da sbirciare, mi godevo l’assenza dei compiti delle vacanze. Meglio che mai se era il momento di stare un po’ su dai genitori del papà. I Nonni si chiamavano Renato e ‘Mabilina’ (il vero nome Amabile l’ho saputo solo da adulto). Stavano in montagna da Pasqua ai Santi a fare burro e formaggi in compagnia di 2 mucche, una manza, 6 galline, 10 conigli e qualcuno dei nipoti che tra giugno e settembre veniva mandato a razzolare appresso ai bovini.
Anche se eravamo all’inizio degli anni ’70 l’estate dei Nonni sapeva ancora di dopoguerra. E’ vero che c’era la pensione, ma il nonno ogni tanto sottolineava con orgoglio che quello che guadagnavano con “lait, tume e bur” (integrato da un orto generoso) era sufficiente a mantenere per tutto il periodo i due vecchietti e i nipoti monticati. Non l’ho mai sentito dire da altri, ma per nonno Renato “… lo Stato me ne dà fin troppi di soldi…”. Non era vero, le pensioni erano miserrime, solo un regime di vita ultrasupermoderato e una gran voglia di spaccarsi ancora la schiena, potevano portare a questo fantastico risultato. Certo lassù le spese erano poche. L’acquedotto era degli abitanti della Borgata, la corrente a 220 volt non c’era e ci si illuminava con un sistema turbina–batteria che produceva 24 volt con l’acqua della fontana. Niente TV, niente elettrodomestici, riscaldamento con stufa a legna. Unici lussi: una radio a pile (per la quale i nonni pagavano regolarmente il canone RAI) e un “baracchino”, ovvero una radiotrasmittente con la quale si tenevano in contatto con una dozzina di amici, sentendosi ad orari prefissati tutti i giorni (come facciamo oggi con il telefonino, con la differenza che quel sistema, una volta acquistato, non costava più niente).

La famiglia di Casa Mura


Il posto è bellissimo ancora oggi. Bello come una pubblicità del Trentino. Sul crinale della montagna, in mezzo ai pascoli circondati da faggi, un grosso cortile con tutte le case che vi si affacciano. Sul lato verso la Valle di Susa (è di lì che arriva il vento) tutte le case sono unite in un fronte unico, gli altri tre lati sono invece delimitati da abitazioni separate. L’unico edificio che non si affaccia sul cortile è la piccola chiesetta. L’hanno costruita per ultima e non c’era più posto fronte–cortile. La Vista è quella di una foto panoramica e non è come quei posti dove all’ora di pranzo arriva il nebbione dell’umido. L’aria che frizza è costante e il tramonto arriva quando tutti sono già all’ombra da un pezzo. Quasi in tutte le case c’era qualcuno. Tra questi “Ninu” un vero allevatore che aveva almeno una quindicina di mucche, un toro e anche qualche capra. Gli altri abitanti erano due o tre coppie di pensionati e un paio di vedove alle quali tutti si rivolgevano facendo precedere al nome di battesimo il suffisso “Magna” (Zia), a significare che eravamo tutti un pochino parenti. Ognuno in estate aveva qualche nipote al quale badare.
I miei Nonni di nipoti ne avevano tre (il sottoscritto e due cugini), ma uno era già grande e non veniva più preso dalla vita agreste: aveva già di meglio da fare in paese. Dividevo quindi le mie giornate (nei tempi e negli spazi, 24 ore su 24) con il cugino Luca che aveva due anni meno di me. Nonostante la differenza di età a mio favore, Luca era più alto e più grosso. Lo era sempre stato, sono convinto che quando aveva 2 anni era già più alto di me che ne avevo 4. Io ero bello magrino, ma lui era decisamente un marcantonio di bambino. Fisicamente la lotta era impari. In tutte le attività e nel nostro rapporto era chiaro chi tra i due aveva le carte in regola per scassare l’altro. Potevo solo sperare nella sua pazienza e ostentare del coraggio. Con questa tecnica una volta rimediai un occhio blu, ma in molte altre occasioni me la sono cavata senza troppi guai.
Le giornate erano organizzate in tempi fissi che ogni tanto venivano modificati dal ritmo della stagione. Io e Luca ci svegliavamo quando la mungitura del mattino era terminata. I due secchi con il latte appena munto erano in cantina dove, sul tavolo di pietra, già riposavano il latte per il burro e le formaggelle fresche che colavano siero. Nel pieno della stagione i secchi erano colmi fino all’orlo, un secchio la mattina e uno la sera per due mucche fanno circa 45 litri di latte al giorno.



Mungitura

Tre o quattro litri venivano venduti freschi dopo la mungitura della sera (dal produttore al consumatore in tempo reale). Il resto veniva trasformato fino all’ultima goccia. Per quanto riguardava noi bambini, i nostri compiti erano precisi: aiutavamo a pascolare le mucche cercando di entrare in confidenza con quei bestioni dagli occhi impenetrabili. Andavamo di corsa a prendere le uova appena sparate nel cesto di paglia dalle rosse galline (con le quali invece non si cercava un contatto amichevole). Assistevamo attenti alle varie operazioni che i Nonni effettuavano con i bovini nella stalla: il fieno nella greppia, la “brusca” passata con amorevole energia sulle natiche e sulle cosce delle docili cornute, la preparazione per la mungitura con il grembiule e il foulard in testa, il miracolo quotidiano del liquido che sprizza dalle mammelle e tamburella il fondo del secchio a ritmo preciso, l’odore del latte che si spande a mano a mano che il secchio si riempie coperto da una schiuma di bollicine bianche.
Il ritmo della settimana era organizzato in funzione del giovedì, il giorno nel quale il Nonno scendeva in paese a fare la spesa e a consegnare il burro e qualche formaggio al negozio di mio padrino (il papà di Luca). Questo significava che il giorno prima del “viaggio” era quello dedicato al burro. Realizzazione e confezione il mattino del mercoledì. La logistica dell’operazione era molto semplice: se il tempo era bello, si piazzava la “macchina del burro” (burera) all’aria aperta, sul battuto di pietre di fronte alla casa. Così, sotto gli occhi di tutti, sfruttando la forza motrice dei nipoti, la magica trasformazione della panna in burro avveniva dopo un’oretta di regolare sbattimento. La burera era di quelle a manovella. Una botte di legno da 20 litri con la manovella che muoveva un meccanismo interno tipo “pale di chiatta del Mississipi”. Il tutto sostenuto da un trespolo a doppia X simile a quelli che si usano per tagliare la legna. Anche fatta l’abitudine, era eccitante vedere che, dopo un po’ di voga modello Oxford e Cambridge, il liquido inserito dallo sportello superiore ispessiva fino a separare le molecole gialle del burro. Il prodotto ottenuto veniva estratto col cucchiaio e (dopo essere stato separato per peso) veniva passato a nonno Renato che era l’artista al quale competeva la forma finale. Le porzioni (una ventina da 2 etti e tre o quattro da mezzo chilo) venivano abbozzate in forma allungata e, dopo essere state fatte saltellare con maestria in una bacinella di metallo laccato di bianco, assumevano la tipica forma a fuso. Come dei piccoli dirigibili di colesterolo dal profumo di fiori di montagna. Tutti i “panetti”, a parte quello del nostro fabbisogno settimanale, venivano poi confezionati nella tipica carta per alimenti stampata di rosso, le cui pieghe di chiusura alle estremità venivano bloccate da due piccoli rivetti. Il grosso era fatto, il mattino dopo tutto ciò che era da consegnare veniva sistemato in uno scatolone sul sedile posteriore della 600 e, tre ore più tardi, la grossa scatola di cartone tornava su piena di provviste. La più attesa di tutte era il pane fresco. Non che le “miche” di una settimana fossero cattive, ma un po’ di morbida mollica per un ragazzino di 11 anni era sicuramente un piacere del palato.
Tra fine Giugno e Luglio veniva il tempo del fieno. Appena l’istinto montanaro individuava quelle che oggi sappiamo essere le caratteristiche tipiche della presenza sull’Europa dell’Anticiclone delle Azzorre, si radunavano gli attrezzi e la truppa di famiglia partiva verso i pascoli destinati al taglio. Ovviamente i terreni scelti erano i più vicini alla casa, giacchè il trasporto del fieno avveniva a dorso di uomo. Con il fieno, il nonno mostrava il meglio della sua abilità di contadino di montagna. Con le mucche era bravo (ubbidivano alle sue parole come cagnolini addestrati), a mungere era meglio nonna ‘Mabilina, ma con la falce Renato era un vero campione. Affilava la lama con la pietra bagnata e, con una coreografia di movimenti semicircolari, accorciava a quattro dita i lunghi fili di erba fiorita con la delicatezza di chi non vuole far male. Il sibilo della lama tagliente era sincronizzato ai respiri regolari, come in un esercizio di arte orientale, dove la precisione del colpo e la concentrazione del corpo sono i segni del perfetto equilibrio. I miei tentativi di emularlo non erano affatto soddisfacenti. Intanto per me l’attrezzo era troppo grosso, inoltre anni di educazione che mi avevano insegnato a stare alla larga dagli oggetti taglienti, mi irrigidivano nel gesto atletico. In ogni caso anche i cinesi imparano il Thai Chi mica in cinque minuti….
Se il tempo era quello giusto, dopo 5 o 6 ore il fieno tagliato poteva essere rivoltato con il tridente. Il giorno dopo veniva radunato a colpi di rastrello in lunghe file parallele dette “qualere” e infine (dopo altre 24 ore) si poteva iniziare il trasporto al fienile.


All'epoca le foto di famiglia si facevano anche così...da duri!
 
Il trasporto era un esercizio epico. Il fisico robusto del Nonno veniva messo a dura prova. Si adagiava una bella quantità di fieno sul “fiorè”, un quadrato di juta con 4 pezzi di corda di canapa assicurati agli angoli. Si bloccava l’enorme mucchio di erba secca con le corde, lo si alzava in verticale e, per mezzo di un’ulteriore corda che faceva tutto il giro, veniva in qualche modo sistemato sulla testa di nonno Renato. Non so se si è capito l’effetto finale, ma era come vedere un covone di 2 metri cubi muoversi lento nei prati, mosso da due piccole zampette dal passo incerto. Con gesti misurati il nonno-covone arrivava al fienile dove lo attendeva l’ultima difficile prova da superare. Il fienile era infatti al primo piano e per portare su il fieno, si saliva una scala a pioli opportunamente modificata in modo che l’uscita sulla terrazza fossa agevole. Un piolo dopo l’altro, attento a non uscire dal baricentro, il Nonno saliva calmo calmo e, quando finalmente posava i piedi sul piano orizzontale, il sospiro di sollievo era collettivo. Un giro dopo l’altro il fienile si riempiva e quando tutto il processo era terminato si aveva ben ragione di sentirsi in festa. A dare un aspetto esteticamente perfetto a questo sentimento ci pensavano le lucciole. Dopo il tramonto centinaia di lucine intermittenti si accendevano nei pascoli tagliati di fresco. Come la ciliegia sulla torta, erano il segno di un lavoro portato a termine felicemente con successo. Me li godevo quei momenti, anche perché di lì a qualche giorno la 600 bianca mi avrebbe riportato alla normale vita di pianura.
Sono passati più di 30 anni da quei giorni, molto è cambiato. I Nonni non ci sono più, “Ninu” non c’è più, tutti quelli che erano nonni non ci sono più e quasi tutti i nipoti sono diventati dei genitori. Sono arrivati la corrente elettrica e l’asfalto a rendere la vita più comoda e, adesso che tutto è più facile, sono in pochi ad avere il tempo e la voglia per stare lassù. Belle case quasi sempre vuote e chiuse. Per fortuna animali al pascolo ce ne sono ancora. Franco, il figlio di “Ninu” ha una stalla nuova e la sua perizia e cura del territorio continuano a mantenere l’”effetto Trentino”.
Mi chiedo spesso cosa mi è rimasto di quei giorni ormai lontani e mi accorgo, con soddisfazione, che la spugna della mia anima ha trattenuto tutto quello che aveva assorbito in quei momenti speciali e spensierati: l’amore per il posto, per la montagna, per le cose semplici, per gli animali, per il legno e per la pietra. La capacità di distinguere il necessario dal superfluo. L’istinto che ti fa vedere un capriolo o trovare un quadrifoglio. Il “Pied Montagnard” di chi sa muoversi con sicurezza anche nei posti impervi. L’eterno massimo rispetto per chi, dopo una vita di sacrifici, mi ha lasciato in eredità un pezzo di paradiso terrestre. Avere quel posto segnato sulla carta di identità alla voce “indirizzo” è il mio sogno più segreto e anche quello più palese. Intanto continuo a sentire lì le mie radici e, piano piano, provo a spingerle più profonde, poi nella vita …chissà…


Pascolo...




UN CENTRO COMMERCIALE A EMISSIONI ZERO

Le Baite di Oulx

di F.A. e a cura della Redazione di Montagnard 


Il centro commerciale Le Baite di Oulx, esiste dagli anni novanta. Lo ha costruito Maurizio Rota, un imprenditore da sempre attivo nella zona con progetti all’avanguardia. Già nella sua struttura il centro è il tentativo di conciliare esigenze architettoniche moderne con l’architettura tradizionale alpina, quella delle baite di montagna. In questi anni poi sono state sviluppate diverse politiche nel tentativo di armonizzare la grande distribuzione alimentare con una visione più responsabile del consumo e più in generale dello sviluppo economico.

 
La nuovissima pala eolica installata ad Oulx sui prati fra l'autostrada e
il centro commerciale Le Baite


Il Centro Le Baite in questo senso ha fissato recentemente un obiettivo: diventare un centro commerciale ad impatto zero. Pala eolica, pannelli fotovoltaici, geotermia e impianto di cogenerazione. Nel tentativo di andare in controtendenza rispetto a ciò che si fa in molti altri centri commerciali: grandi opere, grandi aree espositive, grandissime quantità di merce ed energia utilizzata, prezzi concorrenziali, ma pochissima se non nulla attenzione all’ambiente ed all’impatto generale di quel tipo di attività commerciale.
Queste scelte sono diventate ben visibili agli occhi di tutti negli ultimi mesi. Una nuovissima pala eolica di più di 20 metri d’altezza installata dalla EolArt, capace di produrre oltre 130.000 kWh l’anno con un vento medio di 6 metri al secondo. La piana di Oulx è zona di vento abbastanza forte e costante, specie nei pomeriggi estivi grazie alle correnti termiche che salgono dal fondo valle. All’impianto eolico per produrre energia si sommano i pannelli fotovoltaici sul grande tetto della nuova ala del centro. Prodotti dall’americana Solyndra e forniti dalla Sun System, sono capaci di generare energia anche in assenza di irraggiamento solare diretto e garantiranno alla Baite altri 70.000 kWh annui. Le tecnologie che sfruttano le fonti rinnovabili sono inserite in un sistema integrato realizzato soprattutto nella nuova ala della struttura commerciale con la finalità di raggiungere il maggior risparmio energetico possibile. Luci che variano automaticamente d’intensità col variare della luce esterna naturale, riscaldamento a pavimento alimentato anche da geotermia e diversi altri accorgimenti per ridurre al massimo i consumi. 
In linea con questo indirizzo dato al centro commerciale, sono state attivate delle iniziative di spesa ecosostenibile, come gli Ecopoint  CRAI, distributori fai da te di prodotti sfusi finalizzati alla riduzione degli imballaggi. Inoltre a breve, in collaborazione con Acsel, verrà inaugurata una innovativa postazione per lo smaltimento delle bottiglie di plastica. I clienti saranno incentivati a smaltire qui la plastica attraverso buoni sconto da utilizzare presso Le Baite. L’idea imprenditoriale di Maurizio Rota è insomma quella di conciliare l’attività commerciale col rispetto dell’ambiente e la valorizzazione del territorio, dando ai consumatori l’opportunità di compiere scelte etiche nel momento della spesa.

L'ingresso delle Baite e il trenino che viene messo a disposizione della clientela per raggiungere il centro commerciale evitando l'uso dell'automobile


Quanto sopra descritto in realtà è il primo tassello di un progetto che prevede entro il 2012 di arrivare a produrre da fonti rinnovabili gli oltre 600.000 kWh annui necessari all’intero fabbisogno energetico del centro commerciale di Oulx. Questo progetto è a sua volta inserito all’interno di un progetto ancora più ampio che il Centro Distributivo Piemontese Codè-Crai Ovest sta elaborando per promuovere la realizzazione di impianti di micro generazione diffusa alimentati da fonti rinnovabili.
Proprio di recente Codè-Crai Ovest, assieme alle Baite di Oulx ha presentato presso il Polo tecnologico agroalimentare Tecnogranda di Cuneo, un ricerca per produrre olio combustibile vegetale da alghe monocellulari alimentate da liquami di aziende zootecniche o liquidi di risulta di industrie lattiero casearie. Un sistema che fornirebbe combustibile ecologico a “km zero” ad un impianto di cogenerazione che verrà installato nei prossimi mesi presso il Centro Distributivo Codè-Crai di Leinì. L’impianto coprirà l’intero fabbisogno energetico di oltre 3.000.000 kWh annui di questo magazzino centrale, dal quale vengono riforniti gli oltre 300 punti vendita Crai del Piemonte.
Insomma un insieme di ottime iniziative con le quali si cerca di dare un contributo importante ed autonomo da parte del mondo dell’imprenditoria, al raggiungimento dell’obiettivo europeo di coprire entro il 2020 almeno il 20 % del fabbisogno energetico da fonti rinnovabili.

La pala eolica di Oulx ha iniziato a girare da circa 2 mesi!